3. NUOVO CONCETTO di OPERA D’ARTE E DI ARTISTA NELL’ARTE DIGITALE INTERATTIVA
Una volta contestualizzate le pratiche oppositive degli anni '80 all'interno della realtà culturale italiana, è possibile giungere alla descrizione dell'arte digitale interattiva italiana, che può essere considerata il veicolo attraverso cui determinate pratiche reali, che mettono in scena il nostro corpo in un mondo virtuale, vengono realizzate per effettuare una critica culturale e sociale nei confronti del presente.
Dai discorsi precedenti affiora che a volte nulla è più nuovo del passato, nel senso che anche nei fenomeni artistici e culturali che appaiono completamente radicali e destrutturanti (mi riferisco sia ai movimenti di avanguardia artistica che a quelli antagonisti e controculturali), si scoprono sempre sedimentazioni che li ricollegano con opposizioni precedenti. Questo non per sminuire certe pratiche decisamente innovative e portanti in un contesto socialmente costruttivo (spesso è proprio nell'ambito della decostruzione culturale che si generano le più incisive costruzioni sociali), ma per sottolineare che esaltare le rotture, i cambiamenti, le rivoluzioni radicali a volte è una menzogna che cela sotto la coperta opaca che la connota, i germi della superficialità, della manipolazione e dell'accecante mercificazione. A volte infatti sono proprio i contesti presentati con maggiore enfasi innovativa e con minore analisi critica ad essere facilmente strumentalizzati con strategie di potere. La storia del passato ci offre continuamente prove di oblio e dimenticanza, che invece di scardinare positivamente le vecchie radici a cui si riferiscono, ne creano di più salde nei territori marci.
Quindi è proprio quando il nuovo si origina dal passato e si rivolge a questo, magari per trasformarlo anche pesantemente, ma sempre costruttivamente, che si crea il cambiamento critico. Invece quando si è accecati da immagini fantasmatiche che offuscano tutto il circostante senza capire da dove sono generate e soprattutto da chi si rischia di diventare pedine proprio di chi si vuole osteggiare.
Tutto questo per dire che la forma di arte che mi accingerò a trattare (chiaramente riguardo agli artisti da me contattati) non vuole essere radicalmente e accecantemente nuova, ma anzi, vuole essere un motivo per riflettere criticamene sulla condizione presente, rapportandosi sicuramente alle esperienze artistiche e culturali del passato, pur superandole per certi aspetti.
3.2 Arte digitale come critica reale
Riallacciandosi al discorso di sopra, gli stessi artisti si discostano dal fenomeno della Realtà Virtuale, pur essendo le loro opere in effetti "opere virtuali" e il termine interattività genera la stessa diffidenza. Questo perchè sia la Realtà Virtuale che l'interattività sono diventati concetti feticizzati, commercializzati dall'industria comunicativa e hanno perso il significato critico originale, diventando i protagonisti plastificati delle tante mostre-mercato che pullulano nel panorama mediatico attuale. All'inizio degli anni '90, l’idea di Realtà Virtuale venne associata a qualcosa di totalmente nuovo, totalmente fantastico, altamente futuristico, rivelatrice di nuovi universi in cui poteva essere possibile ampliare la propria sfera sensoriale e vivere esperienze altamente reali.….proprio perchè sofisticatamente virtuali! E' chiaro che, pur presentando l'idea di Realtà Virtuale dei contenuti estremamente innovativi e interessanti, se visti come una risposta critica all'appiattimento generalizzato che pervadeva molte frange del sistema dell'arte, esaltata in questo modo e soprattutto connotata da scenari esperenziali così altamente promettenti, ha finito per deludere chi si aspettava di vivere realmente delle esperienze corporee reali a partire dal virtuale.
Questo perché spesso si è cercato di dare una risposta artistica solo a partire dalla tecnologia e molte volte si è giunti a legittimare una creazione come "arte di RV" solo perché intrisa di tutte le componenti immersive (casco, guanti, body-glove) che il mercato tanto esaltava. Non è la tecnologia immersiva l'elemento determinante per rendere interessante un'opera, così si rischia solo di diventare pedine inconsapevoli di un'industria tecnologica che vuole vendere i suoi prodotti. Anche se può sembrare noioso e tradizionalista dirlo, un'opera interessante a mio parere deve comunque presentare un contenuto, o perlomeno essere fonte di una riflessione sulla nostra condizione presente mediante l'esternazione di un'espressività non coatta. Quindi è vero che il concetto di opera d'arte può essere aperto a tante altre forme di espressione come gli happening di Fluxus, le performance della body art, i graffiti sui muri, la musica punk, i virus informatici, i videogiochi, la Realtà Virtuale stessa, e che quindi non esiste una forma sacrale di opera d'arte, vista come un unicum irripetibile, ma questo non significa che tutte le pratiche possano essere artistiche, nel senso che non tutte permettono realmente di operare una costruzione critica e positiva sul reale, generando un discorso realmente propositivo che faccia riflettere concretamente sulla società, sulla condizione individuale in essa, sul nostro essere in generale.
Dai dialoghi riportati con gli artisti in questione, emerge proprio l'esigenza che è necessario avere una visione critica sul reale, e questo aspetto non deriva assolutamente dal creare opere tecnologiche e "virtuali", anzi, molti di loro sottolineano che utilizzano la tecnologia per la sua multimedialità, versatilità, trasversalità, ipotetica democraticità, perché permette un maggior dialogo con il fruitore e perché permette al fruitore di essere maggiormente attivo nel processo comunicativo, ma non perché è necessaria per conferire validità ad un'opera. E' chiaro che con l'utilizzo del computer e del digitale si avranno sicuramente opere diverse rispetto al passato, per le modalità di fruizione personalizzate e per il maggior coinvolgimento psicosensoriale dello spettatore (che si fa quindi attore) e per la possibilità di mettere in relazione immediata moltissime persone (basta pensare alle opere in Rete), però questo non basta: la spettacolarizzazione tecnologica di per sé non costituisce un fine e per vivere realmente le esperienze tanto osannate con il virtuale, non è necessaria la tecnologia di per sè, bensì è fondamentale che attraverso determinate pratiche, si costruisca qualcosa in noi e si operi una riflessione critica, processo che la tecnologia può favorire, poichè facilita sicuramente la messa in scena del nostro corpo-mente. Quindi la performatività delle nuove tecnologie sicuramente aiuta a vivere determinate pratiche, ma queste si effettuano principalmente attraverso la nostra coscienza critica, e possono quindi attuarsi anche al di fuori di un ambito tecnologico.
Il digitale rappresenta una componente della contemporaneità da non ignorare e permette concretamente di realizzare certe pratiche che in passato si sarebbero attuate con un elevato dispendio di energia e denaro (si pensi alla pratica della Mail Art degli anni '80, che oggi è degnamente sostituita dalle mailing-list, chat, newsgroup e dal semplice utilizzo della posta elettronica). Inoltre il digitale, attraverso le sue componenti interattive, permette più concretamente di impossessarsi dell'opera artistica e di personalizzarla, mettendo in gioco non solo la vista, ma anche gli altri sensi percettivi, ed è un percorso che tutti possono compiere.
Si deve quindi riconoscere che a partire dagli anni '80, l’uso del computer nei linguaggi dell’immagine ha determinato una non indifferente svolta nell’ambito delle espressioni artistiche, permettendo lo sviluppo di nuove forme di percezione e configurazione.
Il digitale ha permesso all'arte di aderire sempre più al nostro corpo e alla nostra mente, diventando quasi una metafora onirica dell'inconoscibile, dell'oltre la soglia.
L'Arte da concetto assoluto ed estraneo, si avvicina al fruitore facendosi esplorabile attraverso la personale azione diretta psicosensoriale e psicomotoria (trasformandosi quindi da Arte ad arte).
3.3.1 L’interattività nell’arte
Il fruitore viene invitato a vivere un'inusuale esperienza in cui artificiale e reale si fondono, e c'è la volontà di giungere attraverso l'interfaccia uomo-macchina ad un'arte che permetta di costruire liberamente i propri liminari percorsi espressivi e di attivare dei circuiti di senso carichi di energia.
Attraverso l'interattività, dunque, concepita come relazione biunivoca uomo-macchina, al fruitore viene conferito il potere di manipolare e trasformare l’elemento artistico con cui interagisce, essendo a sua volta influenzato da esso, assumendo così un ruolo attivo nel processo di comunicazione, che non risulta più quindi verticistico, ma dà origine ad una relazione di feedback opera-utente.
Bisogna chiaramente riconoscere che tutto il panorama della sperimentazione performativa nell'ambito artistico del passato, ha posto in primo piano la dimensione dell'agire e quindi l'agire nell'opera d'arte non è una novità del virtuale e ugualmente l'interattività era possibile anche in passato, di fronte ad opere che per essere fruite necessitavano un'attiva costruzione di senso da parte del fruitore. Questo era stimolato ad operare un'azione psichica manipolatrice sui linguaggi e sui codici comunicativi al fine di determinare la chiusura di un percorso semiotico aperto (si pensi alla sperimentazione audiovisiva di Nam June Paik che "suggerisce l'idea di una televisione come pura materialità significante, di cui ogni spettatore può riconfigurare il senso in assoluta libertà."). Invece l'interattività come agire fisico e non solo psichico del fruitore, si riscontrava già in alcune opere di Marcel Duchamp: "appoggiando gli occhi ai fori praticati sulla porta dell'Etant donnés, lo spettatore ha la veduta prospettica, falsamente ravvicinata, del corpo immobile e desiderabile [di una donna] adagiato sul terreno, nonché del paesaggio circostante." L'opera assume senso attraverso il movimento attivo del fruitore e viene svelata attraverso lo sguardo. L'installazione di Duchamp si può quindi considerare interattiva, perché ha senso solo attraverso l'azione concreta del fruitore che, attirato dai due fori praticati su una porta, vi avvicina gli occhi, avendo così modo di oltrepassare la zona liminale che inizialmente lo separa dalla scenografia del desiderio architettata dall'artista.
Anche nell'arte cinetica era necessario l'intervento del fruitore, invitato ad operare una scomposizione dell'opera: nel caso di Oggetto a composizione autocondotta (1959) di Enzo Mari gli spostamenti operati dagli spettatori facevano variare disposizione a forme geometriche racchiuse entro un contenitore di vetro. L'opera d'arte assumeva vita propria ed il suo "vivere" si fondeva con quello del fruitore. Nell'optical art degli anni '60, il fruitore era invitato ad una collaborazione ottico-psicologica per percepire gli effetti ottici e le illusioni percettive che le opere presentavano, e per avere la visione prospettica ottimale, era indotto a spostarsi di fronte al quadro.
Sostenere quindi che in passato lo spettatore era costretto alla passività, mentre con il virtuale ottiene finalmente il dono dell'attivismo è in parte errato: in parte perché chiaramente nell'arte digitale interattiva la componente tattile, sensoriale e gestuale assume prioritaria importanza a discapito di quella unicamente visiva e senza l'intervento del fruitore l'opera in effetti "non esiste". Mariacristina Cremaschi nel suo testo descrive l'arte tecnologica come L'arte che non c'è: "l'artista è il progettista di un'opera che ‘non c'è’ in una materialità concreta e che non si manifesta senza un fruitore. Attraverso l'interattività di questi con l'opera essa si evolve metamorficamente esplicando il progetto generativo e l'artista diventa, da artefice unico, attivatore di processi, mentre il fruitore diventa coautore di questi processi. Infatti, da un lato l'artista affida al supporto immateriale del software la descrizione del suo modello mentale e dall'altro affida al fruitore la realizzazione stessa dell'opera attraverso l'interattività con l'ambiente creato […]."
3.3.2 Nuovo ruolo dell’artista e del fruitore
Questo tipo di arte vuole determinare una trasformazione sia nel concetto di artista (che non appare più come il creatore di qualche intoccabile simulacro sacrale), che in quello del fruitore (che viene invitato a trasformare l'opera e contribuisce al suo esserci). Di conseguenza anche l'opera d'arte in sé risulta diversa e diventando azione, pratica performativa, non risulta più un oggetto mercificabile in un sistema artistico chiuso.
Con l'arte tecnologica e interattiva viene liberato il prodotto artistico dalla sua "aura", dal suo "hic et nunc", dal suo "valore espositivo", che rendono l'opera unica, irripetibile, lontana dalla fruizione diretta dell'individuo, una specie di feticcio da osservare a distanza (ricordando le parole di W.Benjamin che negli anni '30 comprese l'importanza, per una fruizione generalizzata, del connubio fra arte e tecnica, analizzando la comparsa della fotografia e del cinema nella nascente società di massa).
Più specificamente, muore l’"aura" vista come originalità intoccabile, derivante dal lavoro manuale di un unico artista, mentre nascono, se vogliamo, una pluralità di "auree" quante sono le esperienze dirette dei fruitori, che prendendo parte al processo creativo agendo performativamente sull’opera d’arte, contribuiscono a realizzarla nel suo insieme.
Infatti ogni fruitore viene invitato a vivere una personale esperienza psicosensoriale, confrontandosi e interagendo con la creazione dell'artista, la quale appare quindi sia una che molteplice, mai uguale a se stessa.
3.3.3 Arte come evento processuale
L'opera d'arte si fa quindi aperta e assume le caratteristiche di un processo in divenire, un non-luogo senza fine.
E' naturale che vengono colpite le fondamenta del mercato e del sistema dell'arte. Chi è l'artista? L'ideatore dell'opera, il programmatore del software (spesso sono due persone diverse) o il fruitore?
E come può essere vendibile un prodotto mutante e collettivo che si anima attraverso l'impulso vitale degli individui e che non può essere "collezionato" e appeso al muro?
Attraverso le caratteristiche tecniche proprie delle opere digitali, trovano una traduzione concreta le istanze oppositive verso la feticizzazione della merce portate avanti dal punk e dal cyberpunk, movimenti che rispondevano alla "cosalizzazione" del sistema culturale attraverso le autoproduzioni attuate spontaneamente per lo più all'interno dei Centri Sociali.
L'arte attraverso il digitale si fa riproducibile e l'identità dell'artista viene frammentata negli infiniti cloni della sua creazione artistica generati dalla fruizione diretta. L'identità unica dell'autore in passato inscatolabile nell'oggetto artistico mercificabile, viene ora ibridata con le identità dei fruitori generando una commistione caleidoscopica fra l'io e l'altro. L'opera non appartiene più al solo ideatore, ma viene filtrata dai vissuti individuali e si fa collettiva, fluttuante, dai confini nomadi. Non è più quindi lo specchio di una singola soggettività, ma appare caratterizzata da riflessi polifonici, tanti quanti sono gli individui che ne fruiscono.
3.3.4. Arte riproducibile e plagiarista
Tutto questo ricorda le pratiche plagiariste di ascendenza situazionista degli anni '80, che confluirono nel "Festival del Plagiarismo" tenutosi a Glasgow nella settimana dal 4 all'11 Agosto 1989.
"La manifestazione è stata organizzata avendo come propria tesi la radicale critica di base del concetto di ‘artista’ e di arte in generale. Ipotesi di fondo è che l'artista non debba essere visto come fosse un genio unico; è questa una visione di origine romantica inadeguata a testimoniare della realtà contemporanea. Contro questa idea e visione ‘borghese’ dell'arte, la tesi ufficiale che è stata contrapposta è stata quella di leggere nella pratica plagiarista, nella clonazione e nel deturnamento del senso l'unica valida alternativa. E' stata in questo senso citata infatti la pratica utilizzata da oltre 100 artisti di tutto il mondo di firmare con un unico nome tutti i propri lavori (Karen Eliot). Coerente rispetto a questa analisi la deliberazione pronunciata nel Festival di effettuare e propagandare uno ‘art strike’, uno sciopero di ogni pratica artistica e di ‘oggettivazione’ in generale fino al 1993."
In questo caso, invece di rendere molteplice un'unica soggettività come nell'arte digitale, si trasformano diverse individualità in un'unica identità, portando comunque avanti le stesse istanze oppositive: superare la sacralità dell'opera unica e frammentare la nozione di artista creatore, destabilizzandone l'autorità e promuovendo un'arte collettiva non feticizzabile.
All'interno di questo discorso viene automatico associare un'altra pratica collettiva di "singolarità multipla", quella che vede in azione la condividualità di Luther Blisset. Luther Blisset non è nessuno e nello stesso tempo tutti possono esserlo. Non ha origine né fine, come le leggende metropolitane e ha come obiettivo quello di sabotare i centri di controllo e di potere mediante azioni di destabilizzazione culturale, introducendosi nelle architetture mediatiche come un parassita in una mela, che ne corrode tutto l'interno fino a lasciarvi solo la scorza destinata ad autosgretolarsi. In un "dialogo platonico" fra Luther e l' identitario, un soggetto che si riconosce fermamente in un solo io, l'identitario sostiene che le opere altrui, come può essere un libro scritto da un determinato Autore, sono utili agli altri e la loro lettura può conferire piacere, per cui è giusto che vi sia un riconoscimento per chi scrive, la cui opera deve essere immortalata. Allora Luther risponde: "Quel libro mi è utile nella misura in cui mi posso servire delle idee in esso contenute a mio piacimento. E io sono utile a quelle idee nella misura in cui permetto loro di riprodursi nel mio e in altri cervelli e di evolversi. E come sai l'evoluzione avviene spesso grazie alla distorsione, al deturnamento di organi. Così quelle idee entreranno a far parte di altre persone e saranno da loro assimilate, in modo che qualcosa di assolutamente estraneo ad esse, di non prodotto da loro, contribuirà a produrre la loro storia."
E alla domanda dell'identitario: "Cosa bisogna fare per diventare condividui?", Luther Blisset, entità multi-identitaria, risponde:"Basta rinunciare alla propria identità, con tutti i vantaggi che questo comporta. Tuffati nell'onda dei sentimenti di rabbia e gioia che senti fluire intorno a te, rielaborala senza apporre il tuo marchio, la tua firma. Perché di un lavoro firmato i tuoi simili non sanno che farsene: è qualcosa di finito, di cui tu hai decretato la fine e a cui nessuno potrà aggiungere nulla di nuovo. La non identità del condividuo va di pari passo con l'incompletezza."
L'idea del plagiarismo e della destabilizzazione di un unico Sé, viene portata avanti per minare alle basi una società giudicata rigida e cristallizzata nel conferimento dei ruoli sociali gerarchizzati, la cui istituzione appare come diretta conseguenza di strategie di potere e di controllo culturale. Minare alle basi il sistema culturale, che nell'ambito artistico agisce attraverso le grandi firme e le quotazioni di mercato delle opere d'arte, vuole determinare una maggiore democraticizzazione dell'arte e in effetti la fine dell'Arte stessa, vista come specchio legittimante di una classe di potere che detiene il controllo sui mezzi di espressione.
3.3.5 Arte democratica e collettiva
Tornando al discorso sull'arte digitale interattiva, sia nel concetto di digitale che in quello di interattività, sono presenti le istanze di maggior democratizzazione dell'arte, che può essere riproducibile e appartenere a tutti mediante un processo senza fine. Gli artisti da me considerati sono sensibili all'idea del no-copyright, considerato come un cyber-right, più specificatamente come il diritto alla riproduzione. Come abbiamo visto sopra, all'interno del gruppo sulla comunicazione sTRANO nETWORK, Ferry Byte e Stefano Sansavini si occupano attivamente di abbattere determinate barriere sociali attraverso il libero utilizzo degli strumenti informatici (i principali cyber-rights sono, lo ripetiamo: il diritto dell'interattività di comunicazione, il diritto all'anonimato e alla privacy, il diritto alle infrastrutture di comunicazione e appunto il diritto di riproduzione).
Nell'ambito della Rete appaiono ancor più evidenti i concetti di autodeterminazione dell'identità personale e di creazione di opere collettive e ancor più fortemente sono portate avanti le istanze di democraticità e di universalità dell'arte.
Nelle opere artistiche in Rete, la figura dell'artista risulta ancor più smaterializzata e perde ancor più il "possesso" della sua creazione, che si fa realmente collettiva.
Le performance artistiche in Rete, infatti, viste come reti di relazioni che si instaurano fra gli individui, che possono liberamente dare sfogo alla propria creatività , sono infatti originate da tutte le azioni degli individui collegati nel cyberspazio, che versano la propria individualità fluttuante negli interstizi labirintici del mondo virtuale.
Chiaramente in Rete non esistono copyright, né sistemi d'arte che rendono le opere oggettivabili e lo stesso artista che può organizzare le performance assume solo un ruolo guida, ma non determina assolutamente lo svolgersi del processo artistico, che rimane libero e spontaneo e soggetto solo alla creatività personale.
Quindi le possibilità di interazione risultano realmente illimitate, cosa che invece va accettata con riserva riguardo alle performance bidirezionali che il fruitore inscena interagendo con le installazioni di arte digitale, che presentando un programma informatico pianificato dall'artista, permettono possibilità di fruizione comunque finite, anche se dai confini aleatori e non del tutto immaginabili dallo stesso artista.
Nella Rete si vuole creare un contesto maggiormente orizzontale e gli unici ostacoli sono appunto di natura tecnica ed economica: per questo si cerca di garantire a tutti l'accesso gratuito alla Rete e si vogliono massificare le conoscenze informatiche, per non creare fenomeni di emarginazione sociale proprio a partire da strumenti pensati come veicolo di maggiore democraticità. Questo è un problema non indifferente e da non ignorare e soprattutto è necessario evitare che anche un mezzo ipoteticamente orizzontale come la Rete, diventi strumento di controllo e di nuove esclusioni.
Tornando al discorso artistico, con la Rete l'arte si fa sempre più un'arte di movimenti e relazioni e diviene sempre più concretamente la messa in scena di pratiche perfomative che vedono in azione non più un unico performer, ma una collettività di performer che attraverso l'agire psicosensoriale contribuiscono a creare "organismi collettivi".
E' un'arte coperformativa o come sostiene Tommaso Tozzi coevolutiva, che trae cioè vita e si sviluppa dalle azioni congiunte di una molteplicità di individui, che contribuiscono spontaneamente a realizzare un tutto organico e processuale.
Da qui si ritorna al concetto di autogestione, visto come possibilità di realizzare autonomamente determinate pratiche attraverso modalità di azione orizzontale, che mettono in scena una collettività di individui che collaborano reticolarmente al di fuori di verticistiche logiche di potere.
In questo senso si può dire che l'arte digitale interattiva permette la messa in scena autogestita del nostro corpo-mente, fungendo da fulcro per un'esplorazione critica sul reale.