Date: Sun, 30 Nov 1997 19:11:26 +0100

To: arti-party@breton.dada.it

From: Tommaso Tozzi <T.Tozzi@ecn.org>

Subject: Re: arte non arte

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Mario Canali ha scritto:

 

>La maggior parte delle opere esposte in quella mostra il loro valore se lo sono conquistate fuori, sul campo.

>L'operazione è esattamente l'opposta di quella di Duchamp. Il loro senso, anche il loro senso artistico, quei lavori lo hanno raggiunto in luoghi non estetici, al gabinetto per continuare la metafora di Duchamp. La scatoletta di Manzoni al di fuori del museo ridiventa merda, l''ortinatoio' di Duchamp ridiventa un pitale, e cosi' continuano a leggerli le persone che non partecipano ai dibattiti del mondo dell'arte. Le nostre opere, i nostri oggetti, le nostre macchine digitali, continuano invece a trasmettere senso anche al di fuori di un museo o di una galleria, ad infiniti livelli, accettandoli tutti e adattandosi a tutti, da brave macchine complesse che sono.

 

A me sembra che quelle di Duchamp e Manzoni siano 'affermazioni' anziche' 'pratiche'. Duchamp e Manzoni hanno delle affermazioni da fare il cui senso e' stato sviluppato sicuramente 'fuori' dal luogo artistico attraverso discussioni, ricerche, riflessioni e dibattiti (forse anche intuizioni?). Le loro opere mi sembra che siano 'controprove empiriche' di affermazioni probabilmente gia' fatte fuori dai luoghi dell'arte.

 

La contraddizione che sorge nelle loro opere e' che, come avviene nella meccanica quantistica, anche nel sistema dell'arte l'esperimento modifica l'oggetto osservato.

 

I livelli interpretativi delle loro opere possono essere almeno due: 1) Ogni cosa della vita (orinatio, merda, etc.) e' arte. 2) Ogni cosa della vita (orinatio, merda, etc.) e' arte se inserita in un contesto artistico. Non credo che le due opere si limitino solo al punto due, dato che vivono (in particolar modo Manzoni) in un momento in cui si cerca costantemente un'equivalenza tra arte e vita (non di separarle).

 

L'indeterminatezza di cui dicevo sopra nasce dal fatto che se vuoi fare una dimostrazione del grado di artisticita' della vita inserendone una sua parte in un contesto artistico si crea il problema che nel momento stesso in cui presenti l'orinatoio o la merda nel museo essi sono gia' opera e quindi l'affermazione che riesci a fare non e' piu' "la vita e' arte" ma "l'arte e' arte". Il problema e' per certi versi simile al rapporto tra nome e sostanza. Se cioe' allo stesso modo di come esiste il problema se un nome ha in se delle 'qualita' della sostanza di cio' che designa, ugualmente esiste a mio avviso il problema se una parte della vita spostata all'interno del contesto artistico mantenga inalterate quelle qualita' che la definivano parte della vita. Capisco che il paragone e' molto tirato per i capelli, ma se si accetta si puo' paragonare le opere (intendendo per opere quello che e' il senso che io non amo ovvero: oggetti dentro un museo) a "nomi" che designano la sostanza della vita. Se si accetta tale paragone si entra in una complessa tipologia di problemi su cui e' stato scritto fin dall'antichita' (Platone nel "Cratilo" lascia a Socrate sostenere che i nomi non hanno in se ne' le qualita' della sostanza dell'oggetto designato, ne' sono pure convenzioni, bensi' ombre dell'idea platonica di tale oggetto). Lo stesso Eco nell'ultimo suo libro, se ho ben capito dalla lettura di un'intervista, si pone il problema di come sia difficile cogliere e classificare il mondo attraverso categorie e dunque nomi (il caso dell'ornitorinco e' quello di un animale che presenta caratteristiche di specie diverse al punto da esserne difficile se non impossibile una sua classificazione all'interno dell'una o dell'altra).

 

Tutto cio' era per arrivare semplicemente a dire che se e' difficile affermare che una parte della vita rimanga tale nel momento in cui viene presentata come opera (se cioe' non ne venga tradita la sua natura nel fare cio') e' difficile usare tale metodo per affermare un'equivalenza tra arte e vita.

 

Se dunque ci preme l'equivalenza tra arte e vita e' difficile sostenere cio' portando delle prove (opere) all'interno di un museo.

 

Questa e' presumo la contraddizione di Duchamp e Manzoni, ma credo che sia anche la contraddizione del sostenere che una 'pratica' possa essere senza danni trasportata dagli ambiti della vita in quelli dell'arte.

 

Capisco che tutto cio' possa suonare a molti come pure seghe mentali, perche' effettivamente, e in questo concordo con Mario Canali, quello che c'e' di buono nell'ultimo periodo (io risalirei comunque a molto prima del semplice avvento del digitale) e' che molte persone hanno cessato di interessarsi di questioni artistiche (o meglio di questioni del sistema dell'arte) per operare pratiche quotidiane che 'di fatto' risolvevano, o piu' semplicemente mettevano in atto, in modi 'non estetici' tali questioni artistiche.

 

Rimane pero' il problema di cosa fare dei 'luoghi dell'arte', dato che reputo difficile il credere che se lasciati a se stessi si esauriranno o che siano gia' morti con la tante volte preannunciata morte dell'arte.

 

In tal senso ritengo interessante un'operativita' all'interno di tali luoghi che si risolva pero' in modi tali da evitare per quanto possibile di far si che cio' si risolva in stati contradditori (in questo senso ho cercato di evitare "l'apparenza" dell'opera nella mostra) e al contrario usare le 'qualita' del sistema dell'arte per favorire lo sviluppo delle pratiche quotidiane extraartistiche. In tal senso molte mie operazioni hanno cercato di sfruttare le qualita' "mediali" (termine caro a Perretta) del luogo artistico, per promuovere e far conoscere tali pratiche quotidiane. Nel caso di Gallarate ho cercato invece di sfruttare le qualita' puramente "economiche" del luogo artistico per deviarne il flusso da ISTITUZIONE --> ESTETICA a ISTITUZIONE --> PRATICA. Questo ha prodotto sicuramente un risultato positivo per una "pratica" ("Isole nella rete" ha ricevuto tre milioni). Il fare cio' ha anche contribuito a movimentare la discussione (come hai fatto notare nel tuo messaggio) in questa mailing list sul modo di operare nell'arte. Quindi ha contribuito allo sviluppo di un'altra pratica, quella in atto in arti-party; se questo contributo sia stato postitivo o negativo rimane un punto interrogativo, come gia' ti ho risposto nel precedente messaggio, a cui possono e devono rispondere, se cio' e' un problema e dunque se e' necessario, i singoli partecipanti della mailing list.

 

Questo e' dunque un invito, oltreche' una proposta, ad usare i luoghi dell'arte non per esporre opere, ma per mettere in atto al loro interno pratiche. Pratiche nella direzione anche di quello che scrive Carlo Gubitosa di cui mi colpisce in particolare l'espressione "sistema cognitivo della societa' delle merci":

 

>Credo insomma che un pezzo del discorso sull'arte oggi vada fatto sulla possibilita' di colpire efficacemente e ripetutamente il sistema cognitivo della societa' delle merci.

>Anche all'interno degli enormi spazi aperti dal digitale (forse meglio li che altrove, grazie alla "enormita'" del mezzo a disposizione), l'arte ha la

>possibilita' di aprire una via alla migliore comprensione della complessita', di riconoscerne i codici e di attaccarli.

 

 

 

bye

Tommaso Tozzi