I COLLEGAMENTI CON LEVERSIONE
CONTATTI CON LEVERSIONE NERA
Il periodo che corre tra
il 1970 e il 1974 registra la proliferazione di movimenti extraparlamentari,
la nascita di sempre nuove organizzazioni eversive paramilitari o terroristiche,
la moltiplicazione di gravi delitti politici - secondo forme affatto nuove per
il Paese - la rinnovata virulenza della malavita comune e delle sue organizzazioni
criminali.
Sono questi gli avvenimenti che formano il quadro entro cui si sviluppa quella
che venne definita la "strategia della tensione", favorita dalla crisi
economica e dalla crescente instabilità del quadro politico.
Quegli anni, oltre ad essere caratterizzati, come abbiamo già visto,
dall'intensa opera di politicizzazione della loggia svolta da Licio Gelli, si
contraddistinguono anche per i collegamenti che ci è consentito di identificare
tra Licio Gelli, la Loggia P2, suoi qualificati esponenti ed il complesso mondo
dell'eversione nera.
Dal materiale in possesso della Commissione si trae infatti la ragionata convinzione,
condivisa peraltro da organi giudiziari, che la Loggia P2 attraverso il suo
capo o suoi esponenti (le cui iniziative non possono considerarsi sempre soltanto
a titolo personale) si collega più volte con gruppi ed organizzazioni
eversive, incitandoli e favorendoli nei loro propositi criminosi con una azione
che mirava ad inserirsi in quelle aree secondo un disegno politico proprio,
da non identificare con le finalità, più o meno esplicite, che
quelle forze e quei gruppi ponevano al loro operato.
Al fine di procedere ad una lettura politica di queste relazioni e di questi
collegamenti è d'uopo individuare entro la vasta mole di materiale documentale
- peraltro ampiamente incompleto: né altrimenti poteva essere, in considerazione
della vastità dell'argomento - che alla Commissione è pervenuto,
alcuni episodi che si ritengono più significativi ai fini della nostra
indagine, secondo il
metodo di analisi espresso nell'introduzione al presente lavoro.
Prima tra tali situazioni nelle quali appare sicuramente documentato un coinvolgimento
significativo di Licio Gelli e di uomini della loggia, è il cosiddetto
golpe Borghese, attuato nella notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970, sotto la spinta
degli esponenti oltranzisti del Fronte Nazionale, i quali avevano da ultimo
prevalso all'interno dell'organizzazione.
La vicenda ha registrato un lungo e non facile iter processuale, concluso con
sentenza passata in giudicato, sul cui esito non è qui il caso di entrare,
perché ai fini che a noi interessano quel che più preme è
porre l'accento su alcuni aspetti sicuramente documentati che suffragano l'ipotesi
prospettata della collusione esistente tra esponenti della loggia con questa
situazione eversiva, tale da consentire una valutazione attendibile del rilievo
concreto che tali contatti ebbero a rivestire.
E così dato rilevare prima di tutto come molti dei personaggi che
nel golpe ebbero un ruolo non secondario appartengano alla Loggia P2 o alla
massoneria: così infatti troviamo tra gli attori di quella vicenda Vito
Miceli, Duilio Fanali, Sandro Saccucci (da più fonti indicato come appartenente
alla massoneria) assieme ad altri imputati del golpe quali Lo Vecchio, Casero,
De Jorio, che tutti figurano nelle liste di Castiglion Fibocchi. Altre fonti
poi riconducono alla massoneria sia Salvatore Drago, accusato di aver disegnato
la pianta del Ministero dell'interno, sia il costruttore Remo Orlandini, che
l'ispettore Santillo, nella sua terza nota informativa, indica più specificamente
come appartenente alla Loggia P2.
Questo primo dato di palese riscontro è suffragato da ulteriori testimonianze,
anche documentali, dalle quali si evince come ambienti massonici si fossero
posti in posizione di collateralità o fiancheggiamento con i gruppi che
al Borghese facevano capo. Esplicita in questo senso la lettera di Gavino Matta
(comunione di Piazza del Gesù) al principe Borghese: "Caro Comandante,
debbo comunicarle che la Loggia non intende assecondare la sua iniziativa, essendo
per principio fondamentalmente contraria ai metodi violenti. Con la presente,
pertanto, vengo autorizzato ad annullare ogni precedente intesa...".
Questi elementi di indubbio riscontro fanno da cornice a situazioni di più
puntuale incisività in ordine al ruolo che due personaggi quali Licio
Gelli ed il Direttore del SID, Vito Miceli, ebbero a ricoprire durante e dopo
il golpe. Come noto, punto cruciale di quella vicenda fu l'inopinato, per gli
esecutori, arresto delle operazioni già avviate: Orlandini, stretto collaboratore
del Borghese, dirà che non poca fatica gli costò correre ai ripari
per fermare quei gruppi che già erano entrati in azione. Lo sconcerto
provocato tra i congiurati da quella improvvisa inversione di marcia è
del resto ben testimoniato dalla reazione di Sandro Saccucci, che poche settimane
dopo ebbe ad esprimere l'auspicio che il responsabile venisse "preso",
distinguendo nella vicenda la posizione dei golpisti da quella di "altre
piccole manichette, più o meno in divisa". Numerose comunque sono
le testimonianze dalle quali si evince la convinzione diffusa tra quanti avevano
a vario titolo preso parte all'operazione "che qualcosa non aveva funzionato",
o, come affermò Mario Rosa, stretto collaboratore di Borghese "...è
la valvola di testa che non ha concorso a quello che doveva concorrere
".
Recentemente alcune deposizioni di appartenenti agli ambienti dell'eversione
nera consentono di indirizzare l'attenzione direttamente su Licio Gelli in relazione
al contrordine operativo che paralizzò l'azione insurrezionale. Si hanno
infatti testimonianze secondo le quali il Venerabile era ritenuto elemento determinante
nel contrordine: tale il convincimento di Fabio De Felice, il quale ne fece
parte ad un giovane adepto, Paolo Aleandri, che poi provvide a mettere in contatto
con Licio Gelli. L'incarico era quello di tenere i contatti tra questi e l'avvocato
De Jorio, allora latitante a Montecarlo; e in tale veste l'Aleandri ebbe numerosi
incontri con Licio Gelli, che si sarebbe prodigato per "alleggerire"
la posizione processuale degli imputati. Le deposizioni dell'Aleandri - che
trovano conferma in quelle di altri elementi quali Calore, Sordi, Primicino
- hanno il pregio di fornire la prova del contatto diretto tra Licio Gelli e
quegli ambienti, aggiungendo un riscontro preciso alle considerazioni generali
già espresse.
E stato altresì testimoniato che Licio Gelli teneva il contatto
con ufficiali dei carabinieri, e certo è che tra i congiurati era diffusa
l'opinione che ambienti militari sostenevano o quanto meno tolleravano l'operazione.
Certo, il Borghese si esprimeva nel suo proclama con decisione: "Le Forze
Armate sono con noi".
A loro volta questi elementi ben si inquadrano nel contesto di una serie di
deposizioni dalle quali emerge come la generazione immediatamente successiva
a quella direttamente coinvolta nel golpe Borghese vedeva nel Gelli l'espressione
di ambienti "che in forma più o meno palese venivano contattati,
però non con l'esplicita richiesta di aderire ad un golpe, quanto per
avvicinarli a posizioni che implicassero un loro consenso per una svolta autoritaria
o comunque per una democrazia forte". Tale almeno l'interpretazione di
Fabio De Felice.
Sta di fatto che nell'analisi che questa generazione forniva di quegli eventi
si assumeva che un'opera di strumentalizzazione fosse poi stata messa in atto
proprio dal Gelli e da coloro che gli erano vicino. Per tali considerazioni
venne prospettata persino l'eventualità di eliminare fisicamente il Venerabile
della Loggia P2, segno questo che la presenza di Gelli in quegli ambienti aveva
assunto un rilievo non secondario, incidendo sulla loro operatività con
conseguenze che venivano valutate come deleterie per l'organizzazione.
Accanto alla figura di Licio Gelli, un altro elemento di spicco nell'analisi
di questa vicenda è costituito dal generale Vito Miceli, direttore del
SID dal 1970 al 1974. In proposito quello che a noi interessa è rilevare
come sia accertata l'esistenza di contatti tra il generale Miceli, allora nella
sua veste di capo del SIOS, Orlandini e Borghese, contatti da far risalire al
1969, epoca nella quale il
generale entra nella Loggia P2. Tali eventi si accompagnano significativamente
alla sua nomina al vertice dei Servizi, che il Gelli si vantò, come sappiamo,
di aver favorito e che precede di poco il tentativo insurrezionale guidato dal
principe nero.
Contatti aveva altresì il generale Miceli con Lino Salvini, al quale
aveva consentito di mettersi in contatto con lui sotto lo pseudonimo di "dottor
Firenze".
Questi dati, unitariamente considerati, vanno letti in parallelo con la successiva
inerzia del generale nei confronti delle indagini sul Fronte Nazionale, condotte
dal reparto D guidato dal generale Maletti. Con questi il Miceli entrò
poi in contrasto, avendo richiesto lo scioglimento del nucleo operativo facente
capo al capitano La Bruna; e va a tal proposito sottolineata la svalutazione
che il direttore del SID faceva dei risultati investigativi raggiunti sul golpe,
come non mancò di esternare all'onorevole Andreotti e all'ammiraglio
Henke.
Gli elementi conoscitivi indicati, che non esauriscono di certo una situazione
oggetto di una contrastata vicenda giudiziaria, debbono essere a questo punto
del discorso inquadrati nell'ambito delle considerazioni alle quali siamo pervenuti
analizzando il rapporto tra Gelli ed i Servizi segreti.
Il dato relativo all'appartenenza di Licio Gelli a quegli ambienti va considerato
alla luce delle successive attività che vedono il Venerabile impegnato
a venire in soccorso degli imputati, svolgendo un'azione che si muove significativamente
in perfetta sintonia con la documentata inerzia del Direttore del SID. Il minimo
che si possa dire è che questi non sembra aver seguito con
particolare accanimento le indagini sul Fronte Nazionale, pur avendo avuto contatti
diretti con i suoi massimi dirigenti.
Contatti che peraltro egli aveva giustificato proprio con la necessità
di acquisire informazioni, nella sua veste di dirigente di apparati informativi.
E del pari in tale prospettiva che vanno valutate sia le diffuse convinzioni
maturate nell'ambiente golpista sul ruolo di Licio Gellí, quale cerniera
di raccordo con gli ambienti militari, che il risentimento maturato per il fallimento
dell'operazione.
Come si vede, anche muovendo da questa situazione lanalisi ci conduce
alla figura di Licio Gelli, al suo ruolo di elemento intrinseco ai Servizi,
come del resto riteneva il De Felice, ma soprattutto alla individuazione della
Loggia P2 come struttura nella quale ed attraverso la quale si intrecciano rapporti
e si stabiliscono collegamenti la cui ortodossia lascia ampi margini di dubbio,
anche
accedendo alla più benevola delle valutazioni.
Elementi di estremo interesse ai nostri fini emergono poi dalla inchiesta condotta
dal giudice Tamburino di Padova sul movimento denominato Rosa dei Venti, nel
quale troviamo la presenza di uomini iscritti al "Raggruppamento Gelli",
secondo quanto affermato dall'ispettore Santillo nelle sue note informative.
Venivano in tali documenti considerati come appartenenti all'organizzazione
gelliana il generale Ricci, Alberto Ambesi e Francesco Donini. L'inchiesta sulla
"Rosa dei Venti" si segnala peraltro alla nostra attenzione per due
testimonianze raccolte dal giudice patavino che rivestono per noi un sicuro
interesse se poste in relazione ad altri
elementi conoscitivi emersi nel corso del nostro lavoro.
Va ricordato in primo luogo che il giornalista Giorgio Zicari ha testimoniato
di aver collaborato con l'Arma dei carabinieri e con i Servizi segreti, entrando
in contatto nel 1970 con Carlo Fumagalli e Gaetano Orlando, elementi di spicco
del gruppo dei MAR, ed ottenendo da costoro informazioni per i detti apparati
investigativi.
Quando nel 1974 lo Zicari venne riservatamente convocato dal giudice Tamburino,
gli accadde di ricevere nel giro di poche ore l'invito ad un colloquio con il
generale Palumbo nel corso del quale l'alto ufficiale ebbe ad esprimersi nei
seguenti termini: "...il tema centrale fu che io non dovevo parlare, che
poteva succedermi qualcosa, dei fastidi, che io avevo tutto da perdere dalla
vicenda, che i magistrati stavano tentando di sostituirsi allo Stato, riempiendo
un vuoto di potere, che non si sapeva che cosa il giudice Tamburino volesse
cercare, che non ero obbligato a testimoniare...".
Questa iniziativa del generale Palumbo viene a collocarsi in modo preciso a
sostegno della già ricordata osservazione del generale Dalla Chiesa sulla
collaborazione non particolarmente motivata degli ambienti della divisione Pastrengo
nellazione che il generale conduceva contro il terrorismo. Va altresì
rilevato che l'atteggiamento del generale Palumbo riporta alla nostra attenzione
il tipo di risposta che l'ammiraglio Casardi, direttore del SID, forniva ai
giudici che indagavano sulla strage dell'Italicus quando si rivolsero al Servizio
per ottenere notizie su Licio Gelli, ottenendo un rinvio alle notizie apparse
sulla stampa.
Sempre nel corso del 1974 il giudice Tamburino raccolse alcuni riferimenti testimoniali
sul cosiddetto SID parallelo, il cui procedimento si chiuse infine con la richiesta
di archiviazione formulata dal Procuratore della Repubblica di Roma, accolta
dal giudice istruttore in data 22 febbraio 1980.
E di particolare interesse, nel contesto di tali deposizioni, quanto ebbe
a dichiarare il generale Siro Rossetti, uscito nel 1974 dalla Loggia P2 in posizione
polemica nei confronti di Licio Gelli.
L'alto ufficiale in ordine al problema dell'esistenza di un'organizzazione parallela
ai Servizi affermò: "...la mia esperienza mi consente di affermare
che sarebbe assurdo che tutto ciò non esistesse..." ed ancora "...a
mio avviso l'organizzazione è tale e talmente vasta da avere capacità
operative nel campo politico, militare, della finanza, dellalta delinquenza
organizzata...".
Questa descrizione letta oggi sulla base delle conoscenze acquisite in ordine
alla Loggia P2, non può non porsi per noi quale motivo di seria riflessione,
soprattutto quando si ponga mente alla sua provenienza da parte di un elemento
che conosceva la loggia direttamente dall'interno e che professionalmente si
occupava di servizi di informazione.
Passando ad altro argomento di ben più impegnativo rilievo, ricordiamo
che i gruppi estremistici toscani compirono parecchi degli attentati (specialmente
ai treni) che funestarono l'Italia tra il 1969 e il 1975. Il generale Bittoni
(P2), comandante la brigata dei Carabinieri di Firenze, iniziò a svolgere
indagini, cercando di dare impulso all'inchiesta e di coordinare le ricerche
dei comandi di
Perugia e di Arezzo. L'impegno degli ufficiali aretini si rivelò, peraltro,
del tutto insufficiente, come ebbe a lamentare lo stesso Bittoni e come risulta
dalle deposizioni dei sottufficiali.
Rilevato come ben due degli ufficiali superiori del comando di Arezzo incaricati
delle indagini facessero parte della Loggia P2 (uno di essi parlò della
relativa iscrizione come di una "necessità") e che Gelli rivolse
al generale Bittoni discorsi sufficientemente equivoci da provocarne una accesa
reazione, non sembra azzardato mettere in rapporto di causa ed effetto linfiltrazione
della Loggia
nell'Arma e l'insufficienza dell'indagine. A questo si aggiunga che analoga
situazione si verificava per la questura della stessa città, essendosi
potuta accertare l'iscrizione alla Loggia non solo di due dei suoi funzionari,
ma addirittura del questore pro tempore.
Anche in tal caso appare legittimo mettere in rapporto di causa ed effetto il
fenomeno di infiltrazione piduista con disfunzioni "mirate": così,
ad esempio, nel caso della informativa su Gelli e Marsili e sui rapporti del
primo con il gruppo Sogno e Carmelo Spagnuolo, richiesta dal giudice istruttore
di Torino alla questura di Arezzo e mai ottenuta. Fu rinvenuta, però,
tra le carte di Castiglion Fibocchi copia dello scritto anonimo che aveva sollecitato
alla richiesta i giudici torinesi: il Venerabile era stato quindi tempestivamente
informato ed aveva potuto predisporre le sue difese. In definitiva, sembra potersi
concludere sul punto che le infiltrazioni piduistiche ad Arezzo nella Polizia
e nei Carabinieri (ed il sospetto di infiltrazione anche nella magistratura,
come si vedrà in seguito) servirono in quegli anni a conferire al Gelli
un'aura di intangibilità, lasciandogli mano libera per tutte le proprie
- non certo lecite - attività.
Un discorso a parte merita, poi, la strage perpetrata con la collocazione di
un ordigno esplosivo sul treno Italicus, ordigno esploso nella notte fra il
3 ed il 4 agosto 1974.
I fatti relativi sono stati già giudicati in primo grado dalla corte
d'assise di Bologna con sentenza assolutoria dubitativa che, pur se non passata
in cosa giudicata, costituisce per la Commissione doveroso - anche se non esclusivo
- punto dì riferimento.
Le istruttorie di una Commissione di inchiesta e quelle dell'autorità
giudiziaria penale hanno infatti la comune caratteristica di utilizzare prove
storiche e prove critiche per giungere, attraverso un processo logico esternato
di libero convincimento, a determinate conclusioni. Gli elementi differenziali
riguardano invece l'oggetto e lo scopo dell'indagine. Quanto al primo occorre
rilevare
che la giustizia penale ha come limite di accertamento realtà oggettivate
od oggettivabili, mentre la Commissione parlamentare può (e deve) tener
conto anche di più soggettive emergenze come modi di pensare, opinioni
e convincimenti diffusi(1).
Quanto al secondo appare evidente che, mentre la giustizia penale ha un compito
di accertamento strumentale rispetto ad affermazioni di responsabilità
personali, la Commissione ha invece quello di un accertamento funzionalizzato
ad un più puntuale futuro esercizio dell'attività legislativa,
e in esso vi è dunque spazio per affermazioni di responsabilità
che siano di tipo morale o politico, secondo la natura propria dell'istituto.
Tanto doverosamente premesso ed anticipando le conclusioni dell'analisi che
ci si appresta a svolgere, si può affermare che gli accertamenti compiuti
dai giudici bolognesi, così come sono stati base per una sentenza assolutoria
per non sufficientemente provate responsabilità personali degli imputati,
costituiscono altresì base quanto mai solida, quando vengano integrati
con ulteriori
elementi in possesso della Commissione, per affermare:
Gioverà a tal fine
riportarsi direttamente agli accertamenti giudiziari. Già nella sentenzaordinanza
bolognese di rinvio a giudizio (14. 4. 1980) si leggeva: "Dati, fatti e
circostanze autorizzano l'interprete a fondatamente ritenere essere quella istituzione
(la Loggia P2 n.d.r.), all'epoca degli eventi considerati, il più dotato
arsenale di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale: e
ciò in
incontestabile contrasto con le proclamate finalità statutarie dell'istituzione".
Più puntualmente nella sentenza assolutoria d'Assise 20.7.1983-19.3.1984
si legge (i numeri tra parentesi indicano le pagine del testo dattiloscritto
della sentenza):
"(182) A giudizio delle parti civili, gli attuali imputati, membri dell'Ordine
Nero, avrebbero eseguito la strage in quanto ispirati, armati e finanziati dalla
massoneria, che dell'eversione e del terrorismo di destra si sarebbe avvalsa,
nell'ambito della cosiddetta "strategia della tensione" del paese
creando anche i presupposti per un eventuale colpo di Stato. La tesi di cui
sopra ha invero trovato nel processo, soprattutto con riferimento alla ben nota
Loggia massonica P2, gravi e sconcertanti riscontri, pur dovendosi riconoscere
una sostanziale insufficienza degli elementi di prova acquisiti sia in ordine
all'addebitalità della strage a Tuti Mario e compagni, sia circa la loro
appartenenza ad Ordine Nero e sia quanto alla ricorrenza di un vero e proprio
concorso di elementi massonici nel delitto per cui è processato".
Significativamente, poi, si precisa in proposito:
" (183-184) Peraltro risulta adeguatamente dimostrato:
Aggiunge significativamente
il magistrato: "appare quanto meno estremamente probabile" - si legge
a pag. 193 - che anche tale "fantomatico massone appartenesse alla Loggia
P2".
La conclusione, su questo punto corre - significativamente - come segue: "(194)
Peraltro tali importanti dati storici non sembrano ulteriormente elaborabili
ai fini della costruzione di una indiscutibile prova di colpevolezza dei prevenuti
circa la strage del treno Italicus".
La statuizione - che non spetta alla Commissione valutare - appare ispirata
al principio di personalità della responsabilità penale ed a quello
di presunzione di innocenza: letta in controluce e con riferimento alla responsabilità
storico-politica delle organizzazioni che stanno dietro agli esecutori essa
suona ad indiscutibile condanna della Loggia P2. Una condanna rafforzata dalle
enunciazioni contenute nella prima parte della sentenza ove si esterna il convincimento
del giudice sulla matrice ideologica ed organizzativa dell'attentato, una matrice
ovviamente irrilevante in sede penale finché non si individuino mandanti,
organizzatori od esecutori ma
preziosa in questa sede.
Scrivono ancora, infatti, i giudici bolognesi: "(13-14) Premesso doversi
ritenere manifesta la natura politica dell'orrendo crimine di che trattasi (anche
in assenza di inequivoche rivendicazioni), data la natura dell'obiettivo colpito
e la gravità delle prevedibili conseguenze della strage sul piano della
pacifica convivenza civile (fortunatamente poi risultate assai modeste per la
tenuta della collettività) e dato l'inserimento dell'attentato
in un contesto di analoghi crimini politici verificatisi in Italia negli anni
1974-1975 (si pensi alla strage di Piazza della Loggia ed alle bombe di Ordine
Nero)"; ed ancora: "(15) è pacifica l'immediata ascrivibilità
del fatto ad un'organizzazione terroristica che intendeva creare insicurezza
generale, lacerazioni sociali, disordini violenti e comunque (nell'ottica della
cosiddetta strategia della tensione) predisporre il terreno adatto per interventi
traumatici, interruttivi della normale, fisiologica e
pacifica evoluzione della vita politica del Paese.
Ebbene, non è dubbio che, nel variegato quadro delle organizzazioni terroristiche
operanti in Italia negli anni in cui fu eseguito il crimine al nostro esame,
l'impiego delle bombe e la loro collocazione preferenziale su obiettivi "ferroviari"
caratterizzasse, usualmente, gruppi di ispirazione neofascista e neonazista
(si ricordino gli attentati sulla linea ferroviaria Roma-Reggio Calabria in
occasione dei disordini di Reggio Calabria e dei successivi raduni, il mancato
attentato in cui venne ferito Nico Azzi, l'attentato di Vaíano, rivendicato
dalle Brigate Popolari Ordine Nuovo, gli attentati dicembre 1974-gennaio 1975,
per cui furono condannati dalla
corte di assise di Arezzo proprio Tuti e Franci) e che fra tali gruppi debba
annoverarsi come già vivo e vitale, nell'agosto 1974, quello ricomprendente
Tuti e Franci".
Concludono peraltro malinconicamente i giudici bolognesi con la constatazione
di un limite invalicabile alla loro indagine, costituito dal fatto che "l'imputazione
riguarda solo esecutori materiali e non, ahimè, lontani mandanti".
Già tanto potrebbe bastare per legittimare le conclusioni sopra anticipate.
A ciò si aggiunga che sospetti di protezione dell'ultra-destra eversiva
gravano su ben individuati uffici della magistratura aretina. Persino la sentenza
di Bologna (pag. 191) ne riferisce, confermando il convincimento degli eversori
neri di poter contare sull'importante protezione di un magistrato affiliato
ad una potentissima loggia massonica, e risultano agli atti dichiarazioni assai
gravi relative ad autorizzazioni di intercettazioni telefoniche non concesse
ed ordini di cattura non emessi(2). Il dato - al di là
di responsabilità individuali su cui non è questa la sede per
disquisire è dimostrativo di una di quelle "opinioni"
o "stati d'animo" significativi - fondati o meno che siano - che legittimamente
una commissione d'inchiesta accerta e da cui altrettanto legittimamente trae
motivi di convincimento.
Le affermazioni dei giudici competenti vanno adesso riportate alle conoscenze
proprie della Commissione ed in particolare a due dati di conoscenza emersi
con particolare significato in questa relazione.
Il primo è che la pista della Loggia P2 e di Licio Gelli fu seguita in
fase istruttoria dai magistrati bolognesi che indagavano sulla strage dell'Italicus
e che chiesero notizie in proposito al SID: il Servizio, che, come ben messo
in risalto in altra parte della relazione, era assai più che documentato
in proposito, altra risposta non forni se non quella, già ricordata,
di nulla sapere riportandosi a quanto diffuso dalla stampa.
Secondo elemento di estremo interesse è quello riguardante i rapporti
fra l'Ispettorato antiterrorismo ed i già ricordati ambienti della magistratura
aretina. Il commissario De Francesco che, per incarico di Santillo, seguiva
la pista piduistica di Arezzo, in stretta collaborazione con i magistrati bolognesi,
ebbe uno scontro violentissimo con un magistrato aretino che lo accusò
convocandolo in questura nel cuore della notte - di violare il segreto
istruttorio(3). L'incidente, che comprometteva in loco
i rapporti tra magistratura e polizia, condusse al richiamo a Roma del commissario
De Francesco da parte di Santillo per ordine superiore (cfr. deposizione del
De Francesco al dott. Persico 9-6-1981), con conseguente accantonamento di una
"pista" pur così sagacemente fiutata dal capo dell'antiterrorismo.
Non è difficile vedere sulla base degli elementi sinora riportati come
le considerazioni svolte dai giudici bolognesi si pongano in piena armonia con
le conclusioni alle quali il presente lavoro è pervenuto in altra sezione.
Non è chi non veda infatti che, ricondotte ad un singolo episodio concreto
quale quello in esame, le affermazioni prima argomentate trovano puntuale conferma.
Emerge infatti che in primo luogo venne dai Servizi negata ai giudici bolognesi
la conoscenza delle notizie su Licio Gelli che essi detenevano e che nei loro
confronti venne attivato quel cordone sanitario informativo le cui ragioni abbiamo
prima individuato, e che adesso vediamo operante nei confronti del giudice inquirente
che indagava sul caso dell'Italicus. Appare in secondo luogo che il filone investigativo
Gelli-Loggia P2 venne anche in questo caso specifico individuato dall'unico
apparato investigativo - l'ispettore Santillo - che autonomamente arrivò
ad intuire il valore di questa organizzazione e del suo capo perseguendola con
costanza nel tempo.
Quanto sopra esposto ci mostra che, alla certezza raggiunta dai giudici bolognesi
sul coinvolgimento piduista nella strage dell'Italicus attraverso prove storiche,
si aggiungono i risultati ai quali la Commissione è pervenuta attraverso
prove critiche tutte gravi, precise, concordanti e che quella certezza già
acquisita, quindi, corroborano ed arricchiscono di particolari.
Nel periodo compreso tra la fine del 1973 ed il marzo del 1974 viene ad evidenziarsi
un'altra iniziativa nella quale si trovano coinvolti uomini risultati iscritti
alla P2 o indicati, nella più volte ricordata relazione Santillo del
1976, come aderenti alla stessa quali Edgardo Sogno, Remo Orlandini, Salvatore
Drago e Ugo Ricci.
Dai documenti in nostro possesso si può avanzare l'ipotesi che il gruppo
facente capo a Sogno, pur non ignorando le iniziative più tipicamente
eversive, abbia sviluppato sin dalla fine degli anni Sessanta, per proseguire
nella prima metà degli anni settanta, una linea più legalitaria,
che però muove sempre dalle premesse di un grave pericolo delle istituzioni
provocato dagli opposti estremismi e dalla incapacità delle forze politiche
di farvi fronte. Tale linea quindi si pone gli obiettivi di realizzare riforme
anche costituzionali e mutamenti degli equilibri - politici al fine di dare
vita ad un governo forte e capace di resistere alle minacce incombenti sul,
paese. Possono citarsi in questo contesto la costituzione dei Comitati di resistenza
democratica sorti nel 1971 per iniziativa di Edgardo Sogno e le proposte avanzate
nei periodici Resistenza democratica e Progetto 80.
Quello che più interessa ai fini della nostra indagine è che la
complessa tematica legata al gruppo Sogno, le proposte di riforme costituzionali
avanzate, come pure, in parte, la strategia adottata, rivelano punti di contatto
con il Piano di rinascita democratica e la strategia di Gelli dopo il 1974.
Ricordiamo infine che nella busta "Riservata personale" che Gelli
custodiva a Castiglion Fibocchi era custodita copia di un anonimo, per il quale
ci fu richiesta di informativa su Gelli inviata alla questura di Arezzo nel
marzo del 1975 dal giudice Violante che indagava sulla eversione di destra.
Nell'anonimo leggiamo tra l'altro:
"Il Gelli sembra inoltre collegato al gruppo Sogno e ad altri ambienti
che fanno capo all'ex procuratore
Spagnuolo oltre che ad ambienti finanziari internazionali".
Un'ultima notazione sul delitto del giudice Occorsio, il quale avrebbe iniziato
ad investigare sui possibili collegamenti tra l'Anonima sequestri ed ambienti
massonici ed ambienti dell'eversione.
Tale almeno fu la confidenza che Occorsio fece ad un giornalista il giorno prima
di essere, ucciso.
Per quanto a nostra conoscenza il questore Cioppa, iscritto alla Loggia P2,
ha dichiarato alla Commissione di aver incontrato Licio Gelli nell'anticamera
del giudice Occorsio, due giorni prima dell'omicidio del magistrato. L'esito
dell'istruttoria relativa esclude collegamenti tra la Loggia P2 ed il delitto;
rimane peraltro da spiegare per quale motivo il giudice avesse convocato il
Gelli,
secondo il dato in nostro possesso.
NOTE: