IL RIFIUTO DEL LAVORO

 

... io mi ricordo che abitavo in centro e per andare alla fabbrica in cui lavoravo dovevo passare lo svincolo di via principe Oddone e mi fermavo in una piazzola alle 7,30 del mattino, vomitavo, risalivo in macchina e andavo al lavoro. Vabbè, avevo anche dei problemi con lo stomaco...

Uno degli aspetti che non vivevo solo io ma vivevano anche altri, i pochi che lavoravano allora, era il rifiuto del lavoro nel senso fisico della parola. Passato il '76 e quindi dal '77 in poi c'è stato un lungo periodo in cui io mi ricordo che abitavo in centro e per andare alla fabbrica in cui lavoravo dovevo passare lo svincolo di via principe Oddone e mi fermavo in una piazzola alle 7,30 del mattino, vomitavo, risalivo in macchina e andavo al lavoro. Vabbè, avevo anche dei problemi con lo stomaco. Però sono stati diversi mesi in cui questo aspetto qua durava, forse qualcuno se lo ricorda, io comunque me lo ricordo. E questo significava che era arrivato un momento, nel lavoro della fabbrica, in cui uno non ce la faceva più, non riusciva più a sopportare di fare un lavoro alienante, un lavoro che non c'entrava niente con la tua vita. Stavi 8 ore lì dentro, uno non riusciva più a capire perché doveva farlo. Poi uno ha fatto in modo di riuscirci.

Al tempo del circolo erano già tre anni e mezzo che lavoravo in fabbrica, mio papà ha sempre lavorato in fabbrica. Il lavoro in fabbrica mi faceva sentire parte di un qualcosa. Mi ricordo che al circolo portavo quella realtà che non era vissuta dalla maggioranza delle persone e aveva dei valori. Per cui c'era una contraddizione fra quello che era la tua esperienza, quello che volevi trasmettere agli altri sul valore del lavoro, al di la della fatica, e poi essere anche d'accordo sul rifiuto del lavoro e su una qualità del lavoro diversa. E questa era una bella contraddizione, ma me lo ricordo come qualcosa di vivo e di positivo.

Io allora lavoravo in fabbrica in una situazione molto pesante e se penso a come stavo, ed è un problema che ho ancora, quello che a me più pesa è un problema di utilizzo del tempo: una schizofrenia che è presente nella nostra vita, e che fa si che noi viviamo a comparti stagni per cui c'è il tempo del lavoro, il tempo della vita esterna al lavoro, il tempo dell'intimità, il tempo della produzione e della riproduzione. Questa contraddizione che è irrisolta e continua ad essere presente, per quanto mi riguarda è tuttora quello che più mi pesa. Allora per lo meno c'era la possibilità di confrontarsi, di discutere, di parlarne, di immaginare qualcosa di diverso. Sicuramente dopo di allora c'è stato un ritorno nella propria dimensione privata per cui ognuno di noi per quello che ho visto, ma parlo in prima persona, certamente il sottoscritto ha iniziato ad affrontare questo problema in termini strettamente personali. Tuttora come allora il tempo del lavoro è un tempo, rispetto alla mia quotidianità, che mi pesa molto.

Il mito della fabbrica si stava rompendo, avevamo un atteggiamento rispetto al lavoro in fabbrica di un certo tipo, c'era anche chi rifiutava il lavoro, con tutte le varie sfumature, però le nostre iniziative politiche erano ancora molto legate alla fabbrica per esempio per i cinque sabati lavorativi alla FIAT il circolo ha fatto i picchetti.

All'inizio del '77 mi licenziai. Il lavoro era diventato incompatibile con il resto della mia vita, bruciava troppo tempo ed energie fisiche e mentali. Il grosso dibattito che stava nascendo sul rifiuto del lavoro riuscì a farmi trovare il coraggio di provarci e così per qualche anno misi in pratica una delle parole d'ordine più care al movimento: riprendiamoci la vita.

 

Una volta l'operaio specializzato era l'operaio con una coscienza, militante, era quello che credeva nel lavoro, in quello che faceva, era anche fiero di avere una specializzazione. L'avanguardia era quello che era in grado di farsi più il culo degli altri, sul piano morale doveva essere un punto di riferimento anche per questo, era uno che non si metteva mai in mutua, non era un assenteista. Invece pensa a tutta la cultura dell'assenteismo che c'è stata; c'è stata sicuramente nel 1977 una grossa rottura.

Nel '77 c'è stato un problema di crisi di cultura perché rispetto alla questione dello sfruttamento la vecchia generazione operaia rispondeva credendo nella possibilità del sol dell'avvenire, della rivoluzione e nel fatto che tu ti dovevi caratterizzare rispetto agli altri come uno coerente che si faceva il culo. Probabilmente su questo tipo di cultura c'è stata una crisi nel '77 e negli anni 70, per cui le nuove generazioni non ci credevano più al fatto che tu dovessi essere quella roba lì e invece rivendicavano una spontaneità rispetto al modo di essere, di viversi la vita. Per me questi temi quando si parla di lavoro sono totalmente attuali, perché oggi è così. Le cooperative, le varie alternative, non sono state una risposta.

Io provengo da una famiglia operaia, mio padre era comunista e purtroppo anche alcolizzato perché aveva vissuto la sconfitta degli anni 50. Lui è entrato in fabbrica giovane dopo essere stato per poco in montagna da partigiano e si ricordava del periodo in cui se il capo faceva il furbo, gli si diceva: guarda che ti facciamo fare la fine di quell'altro. Dopodiché essere semplicemente della FIOM voleva dire essere licenziati: lui era stato licenziato. Aveva visto lavaggi del cervello, gente che prima era militante che scriveva lettere di sconfessione, tutta una serie di tradimenti, da quel periodo ne era uscito a pezzi, beveva ed era fuori di testa(...) Da un lato avevo questa formazione rigidamente comunista, in senso classico ortodosso, una serie di principi che mi sono rimasti ancora, dall'altra, io sono cresciuto nel terrore della fabbrica a causa dei racconti che mi faceva mio padre.

 

... Quando passa il livello del piacere e arriva quello dell'obbligo, della fatica la cosa inizia a stufarmi. Questo è il principio guida di tutte le mie scelte rispetto al lavoro. Il mio rapporto con il lavoro deriva: primo le cose che mi raccontava mio padre quando studiavo; mi diceva se resti bocciato qui c'è il baracchino vai a lavorare alla FIAT. Allora io ho detto 'è meglio che studi perché non devo assolutamente andare a lavorare'. Però di rimando dicevo 'quando ho 18 anni vado via di casa' e a quel punto mi sono messo nell'ottica del: quando finisco le scuole devo per forza cercarmi un lavoro per essere indipendente e quindi mantenermi da solo. Questo è successo nel 1975. Mi hanno anche, a scuola, portato a vedere le officine Savigliano dove c'erano questi qua che montavano motori e trasformatori e io ho riconosciuto come operaio anche uno che poco prima veniva a scuola con noi e ho detto 'no io li non ci voglio assolutamente andare'...

Mi ricordo che la mattina partecipavo al comitato disoccupati, mi ricordo che andavamo a distribuire i volantini davanti alle ferriere perché la FIAT riaprisse le assunzioni e poi ci dicevamo 'si però se la fiat riapre le assunzioni tu ci vieni alle ferriere? no. Neanch'io. Era un po' una contraddizione. Ho capito una cosa fondamentale: che volevo cercarmi un lavoro in modo da fare il meno possibile.

... Ho fatto una serie di concorsi e ho iniziato a fare il bidello. E lì è stato proprio il massimo, nel senso che a me piaceva molto studiare ed era l'idea del metà studio e meta lavoro in quanto nelle sei ore in cui facevo il bidello potevo anche fare altro... mi sono laureato grazie alla provincia, nel senso che mentre lavoravo potevo anche studiare. Poi ho scoperto che c'era un lavoro dove si faceva ancora meno che era l'aiutante tecnico, allora ho fatto un concorso interno... Io quando mi chiedono delle cose le faccio, però ci sono dei lavori, tipo l'usciere, che istituzionalmente non devono fare molto, e che mi permettevano di continuare a studiare. Questa è stata la scelta di quel periodo, nel '77 infatti io facevo il bidello.

Nel '77 avevo già 8 anni di lavoro alla spalle come odontotecnico, avevo iniziato a 14 anni. E mi sono sentito gestito, nel mio quotidiano sul lavoro, da altri. Non ho mai deciso niente della mia vita. Le 8 - 10 ore di lavoro quotidiano le vedevo come una punizione che dovevo accettare, punto e basta; nel senso che non potevo fare altrimenti. Io non lavoravo in fabbrica quindi non avevo neppure la felicità di vivere la bellezza dei rapporti di lotta. Da me in laboratorio non esistevano queste cose. Cosa mi dava la voglia di essere felice anche se facevo un lavoro che non mi piaceva? Era il fatto che finite le ore di lavoro potevo gestire i miei rapporti con la gente che volevo frequentare. Ecco che lì entrava la qualità della vita: per me voleva dire migliorare i rapporti sociali con gli amici. Dovevo portare i soldi a casa,

dopo di che io mi incazzavo se la sera non riuscivo a vedere i miei amici, i miei compagni. E se vedevo i miei compagni, se quella serata lì non riuscivo a concludere niente, se non riuscivo a dare nessun contributo, non riuscivo a stare bene con loro, ecco lì mi incazzavo. Stavo bene perché avevo dei rapporti con il gruppo teatrale del Cortiletto e questo mi dava una grande spinta in tutti i momenti, di notte, di giorno, pensare a come fare per comunicare determinate cose col teatro. E questa era una cosa che mi faceva vivere, e di conseguenza, poi col circolo.

... Una scoperta del '77 è che uno non è un soggetto politico solo per il lavoro che fa ma lo è anche per i bisogni che esprime. Anche se spesso questi bisogni non riesce a esprimerli nel lavoro quanto in tutti gli altri aspetti di costruzione della società. Perché in certi casi riesci a fare un lavoro che ti sembra utile politicamente, spesso però, molto di quello di cui hai bisogno nel lavoro non lo trovi ma lo trovi in altre attività che non a caso non ti vengono retribuite, perché appena vengono retribuite in cambio ti chiedono delle cose, ti impongono delle regole.

C'è il problema che uno magari si trova con tanto tempo libero e non sa cosa fare, perché quello di cui avrebbe bisogno non lo trova. Non è che può andare a fare delle cose che vengono offerte nella società di adesso: dovrebbe costruirne delle altre, e non ci siamo trovati per molti anni in un contesto in cui potevamo costruircele. Ci sono dei bisogni che non trovano soddisfazione, forse non la troverebbero mai in un lavoro, sarebbe una attività, non un lavoro. È l'idea di una società alternativa, del comunismo, di qualcosa del tutto diverso che però sta nei bisogni di adesso

.... Io ho un approccio col lavoro diametralmente opposto. Per me il lavoro, da quando lavoro, è sempre stata una cosa che non mi è mai piaciuta. Il lavoro segna una distanza con la mia vita che misuro con il tempo che ci dedico e i soldi che mi dà. Ad esempio ho scelto di fare il postino perché allora si lavorava solo tre ore e mezza rispetto al lavoro che facevo in ferrovia. Ancora oggi, se mi chiedessero: c'è un lavoro che ti piacerebbe fare? giuro che non saprei cosa rispondere: a me non piacerebbe lavorare. Non sono in grado di pagarmi la benzina della macchina e l'affitto di casa giocando a pallone, ascoltando della musica o leggendo dei libri. Altresì non posso pensare di costruire la mia socialità o di crescere culturalmente attraverso il lavoro, anche se questo occupa una buona parte della mia giornata, per cui sono costretto a pensarci e a ragionarci...